Aria d’altro… Prefazione di Nino Majellaro

Perché l’emozione è diversa in rapporto al momento. Il nero assoluto esiste solo nell’altra struttura.

Versi che si potrebbero porre come incipit a Aria d’altro colore fungendo da raccordo alla precedente raccolta Dal gesto d’inizio. I due testi, pur staccati negli anni, sono legati dal filo persistente della memoria in cui emozione e liricità si fondono e confondono in una struttura linguistica scarna ed essenziale. Notavo già in un mio intervento, riguardante la precedente raccolta, come uno dei dati di maggiore interesse fosse l’uso particolare della metafora che in queste poesie è diventato costante, evidenziato in prima battuta dal titolo e in seconda dal dettato dei versi sospesi tra paesaggio naturale e ricerca interiore. Tra i due estremi fluttuano i mondi sommersi ed aerei della mitica infanzia; dell’amore che «è fiato che divampa | dal niente»; de «i piedi sull’asfalto | e il cuore sotto»; della serena quotidianità e del «morire di tutto»:

Sono la riva – tu la barca che costeggia senza attraccare. Così non posso posare il mio piede pesante.

Tra i mondi sommersi ed aerei riemerge a tratti il fantasma del «nero»: il fantasma dell’ansia e dell’inconscio, ma anche il fantasma cosmico della non conoscenza, e mentre in una poesia della raccolta precedente una forza «irrompe | e trafigge il nero», in questa «il nero assoluto esiste solo | nell’altra struttura»: versi che ho riportato all’inizio di questo scritto.

Vi è, dunque, nella poesia di Laura Pierdicchi l’antitesi tra il sentimento d’amore che vuole concedersi nella totalità del proprio essere e la paura della persona o dell’entità sconosciuta che le sta di fronte. Questo conflitto non è risolto nella poesia, – come non è risolto nella poesia di Emily Dickinson con cui la Pierdicchi condivide il repsiro sotterraneo –; ed è bene che non lo sia, perché è da questo conflitto irrisolto che nasce e canta la voce della poesia. Tra realtà e scrittura si stende, dunque, l’infinita pianura, a volte nebbiosa a volte assolata, in cui le parole prima di essere segni sono cose che hanno nomi e dettati quotidiani:

Per l’amore di piccole cose per quello che incontro che colgo per tutto ciò che d’intorno mi canta mi guida – io vivo.

È naturale che a volte i colori delle «picocle cose», con grazia affabile, brillino soltanto in superficie e lascino in una zona oscura il dolore del tempo che passa e il «tortuoso transito» dell’esistenza. Per cui i versi, pur risultando musicali, come in un settecentesco colloquio d’archi, mostrano qua e là crepe da dove spuntano vecchie retoriche e misure ototcentesche. Ma in una scrittura poetica essenziale e misurata come quella della Pierdicchi queste crepe sono coperte presto da una fioritura primaverile che restituisce al «giardino» l’identità progettuale dell’uomo e nello stesso tempo il suo essere parte di un universo sconosciuto:

Il giardino troppo grande saturo di resina e muschio attorno a noi e noi senza più peso e forma a migrare in altre galassie.

Rileggendo i precedenti testi di poesia mi si conferma l’impressione che in quest’ultimo libro la scrittura di Laura Pierdicchi si è man mano depurata di tutte le scorie e i residui che potevano sfociare nel luogo comune – mi particolarmente a Neumi che è del 1983. In questo testo semplicità e profondità si coniugano in un dettato poetico che mostra in più partiture il respiro di una scrittura autentica e sofferta, ma mostra anche un uso sapiente dei diversi registri delle figure della stilistica poetica in cui predomina, come si è detto innanzi, la metafora. Bisogna però avvertire che i versi della Pierdicchi non si volgono verso un  sistema logico dell’opera compiuta; la compiutezza è impossibile in una poesia che più che la concretezza mostra la trasparenza delle cose, e più che la passione mostra il sentimento celato e incomunicabile. Vi è nel suo mondo poetico un continuo scambio tra accumulo e sottrazione, un rinnovarsi di stagioni tra fioriture colorate e sottofondi minrali, un battere e un levare musicale che è poi il commento arioso di una dolente solitudine.

Aria d’altro colore si articola in due parti, dissimili e complementari; mentre la prima che si intitola “Condizioni” pone l’accento sulla condizione soggettiva dell’uomo e nella sua unicità di essere sofferente e pensante, la seconda “Duetti” canta a due voci «un gioco d’amore e di forma». La differenza è soltanto apparente in quanto l’universo interiore è il medesimo, cambia solo lo spazio del linguaggio che nella seconda parte si muove fra due voci recitanti. Non è teatro come spettacolo, è soltanto teatro dell’anima che accetta, come finzione, di interrogare e interrogarsi in un altrove che è, nel ricordo, luogo d’amore e di dolori:

Sono già altrove. Se riprendo i ricordidevo urlare perché amore è tutto tranne regola.

Inevitabile che a volte la finzione risulti essere un gioco di echi che toglie al soggetto la sua voce unica che non può essere ripetuta se non nella propria solitudine; il rischio, se è rischio, si stempera però nella grazia poetica del verso, nel colloquio a bassa voce tra il poeta e la natura, in una serie di domande sussurrate a cui rispondono il vento e la luna. Così le domande e le risposte parlano le cose della terra e i segni del cielo:

chissà se anche tu hai una finestra in cielo?