Puzzanghera Antonella – Alba da gabbiano
ERA NOVA – BANCHERI EDITORE 2002 – Euro 12,91

Prima di entrare nel merito del volume “Alba da gabbiano” di Antonella Puzzanghera, si deve elogiare il saggio critico di Giovanni Amodio (26 pagine), con il quale passa al setaccio il contenuto umano e letterario del libro. Dalla profonda e minuziosa analisi il lettore ricava tutti i necessari suggerimenti per accedere all’opera ed apprezzarla in tutto il suo intento; altrimenti l’accostamento sarebbe stato certamente più difficoltoso. L’autrice, infatti, non propone una normale silloge poetica bensì un’opera suddivida in sette parti, le quali agiscono nella misura cronologica di un giorno.
Il viaggio della Puzzanghera, o meglio si dovrebbe dire “il volo” essendo protagonista metaforicamente il gabbiano, inizia da una decisione, una conquista, una liberazione.
Nella prima parte è ben definito uno stato di costrizione, una condizione di prigionia. Per la poetessa corrisponde a “La notte” nel senso allusivo dell’oscurità dell’anima quando incomprensioni, dolorose crudeltà psicologiche, vessazioni, infliggono una sofferenza disumana. In tale situazione inizia lo sdegno, la rabbia per un “non vivere”. Lei non riesce più a sopportare una vicinanza ormai estranea e indesiderata: “Raccolgo il niente/che procura/la necessità di viverti addosso…”. Nella “vela di gabbia” si accumulano il dolore, l’implosione, lo scendere nell’abisso della disperazione e nello stesso tempo l’idea, la voglia di un nuovo giorno; l’anelito di uscire dalla gabbia per iniziare un percorso da sola.
Nella seconda parte, “L’alba”, il gabbiano riesce davvero ad involarsi “dinanzi al sole” e finalmente la luce può entrare ed abbagliare la donna, libera e aperta a nuova vita. L’evasione porta “magia di attimi” e il desiderio di depurarsi dal dolore: “Come il gabbiano/immergerò le ali/sporche di dolore /per rinascere al canto del giorno…”. La Puzzanghera infine si riappropria di se stessa acquisendo una nuova forza.
Un passaggio così traumatico porta in ogni modo ad una riflessione; e la nuova donna, pur nella felicità della libertà conquistata, non può fare a meno di tornare indietro nel tempo, nella zona occupata da “L’aurora” come “in anticipo sulla linea d’ombra”. In questa terza sezione il ricordo dell’età infantile è elaborato per un bisogno di sogno, e per prendere possesso di quella parte di lei ormai lontana e forse mai rivisitata. E’ questa zona d’ombra che la Puzzanghera deve esplorare per riacquistare appieno la sua identità di donna. Le liriche di questa sezione, dense di nostalgia, di turbamenti, con riferimenti anche magici, imprimono i voli e le contraddizioni che solo l’infanzia può donare. E’ ricostruendo il passato che piano piano la zona d’ombra si dilegua e l’autrice può illuminarsi nel completo controllo delle proprie facoltà.
Nella quarta parte, “A punti luce”, può finalmente entrare “Il giorno”, metafora della pienezza e della maturità. Qui la Puzzanghera trascorre il tempo filtrando tutti gli accadimenti con nuova consapevolezza. Riesce a gustare tutto ciò che la circonda con una nuova sensibilità, un rinnovato desiderio d’amore e la ricerca di spiritualità: “…Acquisto così garanzia/ per contatti elevati/ con la vera dimensione /dello Spirito /a cui aspiro”.
La perfezione comunque non esiste ed il tramonto segue sempre la luce. Nella quinta parte, “Variazione d’ombre”, la sicurezza a tratti vacilla. S’insinuano riflessioni esistenziali, e accostandosi a Dafne e Apollo l’autrice cerca di apprendere a vivere pur nelle continue mutazioni. In ogni modo s’insinua anche la fuga dall’amore (forse per paura di soffrire di nuovo) e rischia una triste solitudine.
Nella sesta parte, dedicata a “La serata (d’onore) ”, la poetessa indossa la veste di E. Piaf (la cantante alla quale si sente legata, tanto da identificarsi totalmente in lei), per sciogliere un canto armonioso che solo lo “Spartito dell’anima” può originare. Il gabbiano, in questo caso tridattilo, può così dispiegare le ali in alto mare e tornare poi a terra per riprodursi; e l’anima dell’autrice può lasciare il cielo, dove ha cantato come un usignolo, per tornare alla terra e rigenerarsi. La lirica, simbolo, che apre questa sezione è proprio “Vie en rose”, con la quale la Puzzanghera indica il suo cammino: “…Così ho costruito/la mia “Vie en rose” /una vita in rosa/nella quale riconoscermi/per voce e destino”.
Chiude il libro “Il meriggio”, e per quest’ultima sezione la Puzzanghera introduce la sua opera prima con la relativa prefazione di Lina Riccobene. Anche in questo caso, nell’acutissima nota d’introduzione, la Riccobene sa cogliere ogni sfumatura dell’intenzione della poetessa, chiarificando il cammino al lettore. Il testo è stato giustamente inserito poiché chiude il cerchio esistenziale della poetessa. In esso prevale un’emblematica vecchia figura (presenza importantissima per la Puzzanghera, tanto da farne “Credo e simbolo”), alla quale è legata sia spiritualmente sia attraverso una velata sensualità: “…L’implicanza sessuale/ dei “perché”/ ancora oggi/ riempie bocche (le nostre) di sfregi/ se sovviene il ricordo/di denti a inghiottire labbra/ perché non divenga pronunciabile/ l’impronunciabile”.
Queste sono solo delle brevi note sul progetto della poetessa, che appare complesso sia per struttura sia per significati. Per finire, una menzione va alla bravissima Grazia Lodeserto che in copertina e retrocopertina, con il fascino della sua pittura, ha saputo raffigurare tutta la suggestione del mondo della Puzzanghera. Inoltre, ad Irene Strozzeri va il merito di essere riuscita a fissare i punti più significativi dell’opera con raffinati e originali interventi grafici.
ULTIM’ORA – 1-6-2002