Domenico Defelice – Mater

Son passati più di ottant’anni e nitida è ancora nella nostra mente la poesia “Che cos’è una mamma” di Francesco Pastonchi, appresa sui banchi delle elementari in un tempo in cui nei programmi scolastici c’era l’obbligo di stimolare la memoria. È composta di tre strofe, ciascuna di otto versi, nella quale il poeta definisce la madre <<un albero grande>>, <<il mare>>, il <<mistero>>. Alla madre – dice il poeta – potrai recarle qualunque torto, ma anche se le procurerai <<la ferita più profonda/non potrai farla sanguinare>>. La madre, nei confronti dei figli, <<Tutto comprende, tutto perdona,/tutto soffre, tutto dona>>. Ma la strofa più bella e sentita è la prima, che descrive la madre <<come un albero grande/che tutti i suoi frutti ti dà;/per quanti gliene domandi,/sempre uno ne troverà./Ti dà il frutto, il fiore, la foglia,/per te tutto si spoglia;/anche i rami si taglierà>>.

   A quest’albero maestoso e grande, a questo mare e a questo mistero, Laura Pierdicchi ha dedicato un’intera silloge, nella quale si domanda rammenta e risponde, dandoci un commovente e completo ritratto, materiale e spirituale, della propria genitrice.

   Il primo sguardo della poetessa cade e si sofferma sugli occhi di lei; poi vengono le sue mani, la voce, il suo sentire, i capelli, l’eloquenza, la fonte della vita, il suo profumo, la pelle; ecco il perpetuarsi della madre in lei (<<intrecciati legami hanno fuso/il tuo corpo col mio>>) e, quindi, il continuare della sua presenza, l’essere la sua testimonianza; infine, la morte della madre e il suo volare altrove, ma lasciando alla figlia le proprie ali con le quali, a sua volta, volare qui e altrove, perché tutti, ognuno di noi, o prima o poi, dovrà varcare <<una porta spensierata/sempre aperta>>.

   I versi della Pierdicchi sembrano dire e non dire, nel senso che spesso alludono e spingono oltre l’espresso. Hanno dell’arcano e l’arcano è sempre stato fondamentale componente della poesia, motore che dà ali alla fantasia di noi lettori e permette di spaziare sul mondo e sull’infinito; è l’arcano che aggiunge fascino alla quotidianità e la sublima, permettendo al poeta Pastonchi di partire dall’albero, penetrare nel mare – ancora realtà – per sfociare nell’infinito e nel mistero.

   La poesia della Pierdicchi non è facile decifrarla a volte, anche perché è sorgente di continue metafore, le quali spesso aiutano e danno aria alla continuità del dettato, ma altre volte portano altrove: dalla realtà si viene immersi nei sentimenti, si finisce con lo smemorare, investendo e fondendo filosofia, quotidianità, natura, mistero.

   Le metafore – ripetiamo – a volte specificano, completano concetti e immagini; altre volte, però, ingarbugliano: sembrano essere poste solo a decorazione e invece contribuiscono a deflagrare, ad aprire nuovi camminamenti nel tessuto poetico, moltiplicando le possibilità interpretative. La mente del lettore è tenuta continuamente sotto stimolo.

   Il nucleo di questa poesia è unico, comunque, e lo dimostra la presenza in apertura e chiusura di brani di Emily Dickinson, poetessa che ha aperto mondi pur rimanendo confinata, si può dire per tutta la vita, dentro e intorno la propria casa, la propria stanza. La siepe del Leopardi. Così la Pierdicchi. Formalmente è fissa a un tema per tutta la silloge, al tema unico della madre, ma è quest’unicum, questa limitatezza di campo, questo nucleo che, esplodendo e ricompattandosi continuamente rende, prima, estremamente toccante la perdita di un amico, di un congiunto e sommamente quello di una madre e, poi, attraverso l’apparente limitatezza dell’argomento squaderna, via via, altre realtà e altri mondi. Per esempio: la quotidianità, tra cose e avvenimenti, tra la <<cecità del reale>>, la <<fiamma rovente/nella stufa in cucina>>, il <<desco>>, <<l’altana>>, le visite (<<Quella sera/ero venuta per dirti addio>>) eccetera, tutti tasselli che compongono, giorno per giorno, attimo per attimo, <<i fotogrammi del film>>. La Natura, che annulla anche il banale della ripetitività dei fenomeni: <<il sole nasce ogni giorno>>, <<la nebbia saliva/ dal canale>>, il <<brivido/lungo di gennaio>>. La filosofia: <<l’assoluto non senso>>, giacché <<Ciò che percepiamo/si fonde in un vibrare/che fluisce spontaneo>>. La fusione tra madre e figlia, che si concretizza in particolare quando della madre lei indossa gli stessi indumenti, quando passa accanto alle vetrine e si sovviene dei momenti felici allorché entrambe in esse si specchiavano: <<Le vetrine di riflesso/da imprimere la nostra foto>>. Il mistero: <<tra le stanze/un costante fruscio di ombre>> che richiama Edgar Alan Poe (1809 – 1849), solo che il poeta spaventa e la poetessa rasserena; <<l’ignoto>>, alla madre visibile, a lei ancora <<segreto>>; <<il puro frutto dell’immenso>>, la morte, cioè <<lo strappo che buca l’origine>>. E ancora la memoria, <<un magma in fermento>>, per finire – ma si potrebbe continuare a lungo – con l’interiore, insistito dall’assillo delle necessità, da <<l’urgere del vivere>>: <<Non si può dunque/realizzare uno stato di grazia>>.

   La madre – per chiudere col Pastonchi col quale abbiamo aperto – è sempre presente nella nostra vita, anche quando sembra che non ci sia, anche quando vive un’altra esistenza: <<continuamente come l’onda/ti culla e ti viene a baciare>>. Noi, per lei, siamo sempre l’essere fragile e indifeso che ha partorito e la Pierdicchi dimostra come il cordone ombelicale tra lei e noi in realtà non venga mai reciso.

Pomezia, 15 settembre 2024 – ddf pomeziacroconline