Maria Luigia Chiosi – Mater

Non è facile recensire l’ultima opera di una poetessa, ufficialmente riconosciuta ormai tale, dalle voci più autorevoli della critica corrente e che, tra le altre cose, è soprattutto una tua carissima amica.

Essere amici è un dono raro e prezioso che non è di tutti. Significa conoscere oggettivamente di quella persona i pregi, le caratteristiche, il pensiero, perché la confidenza di anni porta a vedere la sua complessa natura oltre il narrato che trovi nelle pagine dei libri da lei pubblicati.  Ne conosci il pudore, la ritrosia, la semplicità, l’umiltà, ma soprattutto la grande capacità di amare e di soffrire.
L’amicizia, se vera, è il più nobile dei sentimenti umani e te ne rendi conto nel momento in cui l’anima tua vive momenti di fragilità interiore. L’amicizia è un ”diverso”  amore che non ha bisogno di orpelli né di sovrastrutture per manifestarsi, perché si avvale prevalentemente di una dimensione spirituale che porta alla condivisione delle gioie e dei dolori che si vivono, che comprende i silenzi, che sa nutrirsi di sfumature e di sottointesi splendidi e significativi ma che  sono preclusi alla maggior parte di coloro che ti circondano.

In una mia recente presentazione della poetica di Laura, avevo a lungo parlato della sua passione per la maggiore poetessa dell’ottocento americano, Emily DicKinson, quasi la sua maestra elettiva, per la purezza dei versi e per la sensibilità che questa ‘ grande’ ha saputo infondere in ogni suo testo poetico. 
Anche in “Mater” l’ultima raccolta della Pierdicchi dedicata alla madre, morta da poco più di un anno, Emily è presente e il suo insegnamento traspare in ogni verso scritto nelle pagine che la compongono.  Nella raccolta, che non manca delle consuete riflessioni filosofiche ed esistenziali che appartengono a quella parte di umanità che pensa, ciò che emerge prepotente è il sentimento che lega e ha legato la figlia alla madre.  In questi versi infatti parla soprattutto il cuore.  Già anni prima la poetessa aveva messo da parte il suo consueto linguaggio per lasciarsi andare libera ai sentimenti umani che stava vivendo dopo la morte del padre.  Mi riferisco alla piccola raccolta “Bianca era la stanza” dedicata al genitore. Una raccolta dove il dolore si mescola al rimpianto, ai ricordi di un tempo vissuto che mai più sarebbe tornato e alla rabbia che umanamente la poetessa viveva davanti al male e alla morte.  Una rabbia dettata dall’impotenza di doversi confrontare con quell’ignoto incomprensibile ai viventi.  Un’impotenza che poteva essere combattuta solo attraverso la parola poetica per mettere in atto quella catarsi del dolore e lasciare spazio ad una memoria benefica del vissuto. Una raccolta che allora   era passata quasi in sordina, ma che invece esprimeva totalmente la grandezza e la bellezza dell’ars poetica di Laura.  Un modo semplice, genuino, ma grandioso che mi dimostrava come l’arte sia per il vero poeta soprattutto libertà di esprimersi secondo i registri che dettano il cuore.
Anche oggi, in quest’ultima opera, pur se in modo diverso, si ripete il miracolo della grande semplicità, che non è mai sinonimo di qualunquismo, ma occasione di liberare felicemente il pensiero, mettendo da parte il tuo consueto linguaggio dotto, per far trionfare l’amore.
Infatti un vero poeta, per essere tale, ha bisogno soprattutto di due cose fondamentali: la libertà di esprimere nelle forme più consone il sentimento che prova e la capacità linguistica di modulare la sua voce a seconda del rispetto e della grandezza che quel sentimento impone.

Tra le mani ho la bozza di Mater, una raccolta semplice nel linguaggio piano, elegante nella struttura, sapiente nei versi equilibrati, dolce e tenera, a volte quasi struggente nei ricordi dei lunghi anni di vita vissuti con la madre, quasi in una simbiosi totale.  Il ricco passato che alberga nella memoria, si intreccia al presente senza sbavature, in modo tale che la bellezza di quel sentimento che le legava, emerge fin dall’inizio, leggero, impalpabile, semplice per essere compreso nella sua corretta grandiosità fino in fondo dal suo lettore.
L’amore filiale, il dolore per la morte, il rimpianto hanno bisogno di essere narrati con rispetto per quello che sono e sono stati e per quello che un’anima sensibile si sente dentro di raccontare.  Il libro non ha voli pindarici, non ha sofismi, perché l’anima nel cantarli catarticamente si eleva e va oltre la barriera della morte, quasi volesse dare a colei che ama una nuova dimensione, una nuova carne, una nuova forza.

Il dolore per la perdita definitiva di chi ti ha messo al mondo, ti permette di fare ciò. Perché l’amore resta e resterà per sempre vivo. Una raccolta che si potrebbe rappresentare pittoricamente come un grande mazzo di fiori freschi e variopinti che emanano il profumo materno.  Ecco che così l’amore ha anche un odore quello che sua madre usava e si spandeva per la casa. E’ quel profumo che ritorna nel ricordo di Laura, il segno di una presenza reale capace di consolare.
Una figlia potrà mai potrà staccarsi dalla madre? La risposta è no. 
Il cordone ombelicale che le ha tenute unite per nove mesi resterà come un vincolo eterno che neppure la morte terrena, così dura, così malvagia che non rispetta né i sentimenti, né l’età, né i meriti di chi ha prescelto quel giorno, può violentare. Quel legame nasce prima ancora che la nuova creatura generata dal suo grembo, veda per la prima volta la luce.
Dopo lunghi anni di vita insieme, oggi la madre non c’è più, ma resta in ogni cosa, in ogni piccolo o grande ricordo della vita di Laura e prende forma e sostanza in quei gesti abituali, in quegli atteggiamenti che la connotavano, nel ricordo della voce che lei amava.
Nessun distacco ci sarà mai da chi l’ha messa al mondo, nessuna morte riuscirà a rompere l’incanto, perché l’amore vero supera ogni dimensione terrena.
Morire è il destino dei mortali e appartiene alla vita, ma non è la fine di tutto, forse è solo l’inizio di un percorso nuovo che noi viventi non possiamo conoscere, di un rapporto diverso, più sublime, più spirituale con chi resta su questa terra. E’ come se l’anima, liberata dalla carne diventasse capace di creare diverse armonie tra chi ci lascia e chi rimane. Lo capisci solo nel momento in cui la perdita di chi hai amato ti permette di cogliere l’importanza che aveva per te. E per Laura, la madre e il padre, la loro storia assieme, sono i fondamentali della sua vita.

Una grande verità che la Dickinson, nella prima poesia citata da Laura, rende palpabile in pochi, ma grandiosi versi.  La morte non è solo cieco dolore, ma diventa stupore di piena conoscenza perché ti permette di comprendere lo splendore che aveva per te chi ti ha lasciato. 

Molto dolce la poesia che dà inizio alla raccolta. Una poesia che ci rimanda ai primissimi anni di Laura. A quell’altana un po’ bohemien che permetteva di vedere la neve che scendeva a falde, di sentire i passi dei topi dentro il legno, di vedere il cielo con il naso schiacciato sul vetro. L’altana è il topos incantato  dove l’embrione di un maestoso sentimento, è iniziato e  si è sostanziato in lei fanciullina, fino  a trasformarsi in un bisogno prepotente di amore , ma che nel contempo ha reso anche la madre una generosa fonte perenne per soddisfare la sua sete.
L’amore materno, che forse è l’amore più sublime, permette di fondere i corpi e i pensieri, oggi si manifesta nei versi di Laura nella  nostalgia della persona che ha amato e del tempo passato che ha lasciato grandi e benefiche orme nel suo “io”.
Non si coglie mai la grandezza di chi ami, mentre lo vivi quotidianamente. Ma nell’attimo del distacco terreno, ecco che la grandezza emerge e genera rimpianti e desideri di poter tornare indietro. Cosa impossibile se non attraverso il ricordo e il rimpianto. Allora dal vuoto del dolore che ribolle informe come il magma di un vulcano nell’anima del superstite, ecco affiorare gli occhi, le mani, la voce, i movimenti, i capelli, il profumo di chi ci ha lasciato e tutto riprende forma e sostanza per trasformare il presente in un susseguirsi di squilibri che sono diversi dal senso di privazione, perché hanno il potere di ampliare la capacità recettiva dei sensi per squarciare il velo d’ombra della morte e tornare alla pace dell’origine.
Nessun distacco, come dicevo prima, ci sarà mai dalla madre. Sempre a lei si tornerà nel momento della gioia, rara, e nei lunghi silenzi del dolore, quando ti rendi conto che sei un nulla davanti alla potenza della morte. Non sarà un ricongiungimento fisico reale con colei che amavi.   Sarà piuttosto la prova dei tuoi limiti umani, quasi una frustrazione che ti lacera dentro, ma ti fa anche comprendere che la vita sulla terra è fatta anche di questo. E’ il nostro destino e a quel destino non ci possiamo sottrarre. Per questo il bisogno fisico di averla ancora e sempre con te, diventa una realtà cocente a cui ti devi piegare.  La madre è la tua radice, l’inizio della tua storia, la tua carne.
E la morte che è la fine della vita terrena te la sottrae, ti priva di questo bene e lo comprendi appieno solo nel momento in cui, ti rendi conto che il tuo passo sulle strade del mondo potrà unirsi solo a un passo d’aria per continuare a camminare insieme.  Un senso tragico di solitudine, di smarrimento totale, di impotenza dolorosa che la vita ci obbliga a subire, anche se non l’accetti, perché non c’è altro rimedio per l’umana dimensione.
Ti possono salvare soltanto i ricordi più semplici, più veri, ma soprattutto la fede che la vita continui in un al di là che possa colmare il vuoto abissale generato dalla sua fine, anche se i dubbi che questo mondo superiore esista sono l’assillo più lacerante che tormenta l’uomo. Questa è la nostra disperata realtà.

 Sarà il tempo a scolorire il dolore e a dare corpo alla speranza. Ecco allora che credere in una vita superiore oltre la morte, diventa l’àncora di salvezza   per non lasciarsi andare nella gora della solitudine ed affrontare il futuro con la speranza che la vita continui, senza ulteriori traumi, nel piccolo microcosmo che ci è dato. Sarà il tempo a darci ancora la forza di rinascere dal dolore, dal distacco definitivo. Sarà il tempo, come una nebbia benefica, che addolcirà il tormento e farà tornare le immagini di coloro che hai amato e a riscoprire ovunque quei rumori, quegli odori che sono stati la tua forza. Sarà il tempo che temprerà la tua forza. Questa raccolta, è quindi un narrato che in versi semplici, talvolta lineari, ritrova la melodia di una vita che si è spenta, ma che è capace mediante l’amore e il ricordo di stemperare la fatica che affronti quotidianamente nella ricerca di una risposta accettabile ai tanti quesiti che ogni essere umano si pone davanti al mistero della morte. Una raccolta preziosa e delicata che ti fa riflettere sul perché siamo al mondo, costretti al dolore, ai distacchi, alla solitudine, a morire.    Siamo mortali.
La nostra eternità o almeno quella che sogniamo, sta tutta e solo in un atto di fede in un aldilà ignoto ora, ma che ci sarà noto dopo la faticosa traversata sulla terra, quella fede che ci spinge a credere in ciò che non possiamo vedere e che il grande filosofo Sant’Agostino ha definito come forza che dà sostanza alle cose non parventi nella nostra condizione terrena.