Stefano Valentini – Mater

Laura Pierdicchi torna alla poesia con questo Mater, per il quale Antonio Spagnuolo parla, nella sua prefazione ricca di considerazioni acute, di “vagheggiato alone di eternità” e di una delicatezza cesellata. Si tratta di un libro memoriale e monotematico, ma assolutamente non monotono, anche in virtù della pluralità espressiva dei testi: spesso nitidi e lirico-evocativi, talora più meditati, in un andirivieni tra sentimento e pensiero.

Ci torna alla mente un precedente libro dell’autrice veneziana, nel quale il lutto-congedo era indirizzato al marito: ne rammentiamo la dimensione quasi metafisica, la proiezione in un Oltre/Altrove idealmente luminoso, ma qui e ora inattingibile e soltanto auspicabile. Qualcosa di simile accade ora, a fronte del nuovo distacco, la “tortura dell’assoluto nonsenso / e il desiderio di tornare indietro”. Di te non ho mai detto niente, afferma l’autrice rivolta alla madre, perché eravamo una cosa sola, ma “ora si può”: la separazione, l’assenza, aprono spazi alla parola, ad un accumulo magmatico che preme per emergere. Rivede, con i propri occhi di bimba, la donna in diversi momenti della vita (“l ricordo / incorpora ogni tempo” e diviene un impasto omogeneo”), adesso che “ignota la distanza che ci attende” e, mentre il sole sorge come sempre c tutto sembra uguale, ci spetta indossare “una maschera gioconda”. Si passa “alla visione primigenia/ alla quasi cecità del reale”, ma “è difficile concepire una realtà / che accarezza solo la parte fisica / privata della radice svuotata / che chiama e insiste a chiamare / quella radice ora nell’invisibile”. La sequenza dei testi alterna affianca, contrappone poesie che evocano momenti condivisi nei giorni spensierati dell’infanzia e giovinezza, “quando per magia tornavi / fata turchina e tutto / riluceva del tuo amore” e la madre era protezione grazia, accoglienza, ad altre invece legate al momento presente dove tutto è ” l’ormai diverso e relativo”, un “susseguirsi di squilibri” che vorrebbe tornare all’oasi di pace” del tempo passato, “puro frutto dell’immenso “. Sarà possibile, adesso, “accendere ancora splendore”? Oppure aggiungere “al mio passo il tuo passo d’aria / per continuare a camminare insieme”? Si fa peri lentamente strada l’accettazione, pur ancora neutra. so iniziano a “rammendare i vuoti”: “agito la clessidra del tempo / affinché quello che è accaduto / si fonda con il divenire / e tutto possa variare // possa crearsi una nuova forma // … // davanti a uno schermo bianco / vergine d’intenti e di emozioni”.

Torna a farsi sentire quel magnetismo che attrae / e ‘innesta nel trascendente”, sussistente “a prescindere / da ogni azione o volontà: “una ignota percezione / trasmuta quello che vedo e sento”, tutto si fa più armonioso, “un fiato che vibra / e si espande nel cosmo, fantasticando un “miracolo per contraddire / la realtà e dimostrare / che niente si dissolve”. Certo, “la percezione di decidere / si annulla nell’attimo in cui / la sentenza cade dall’alto” e qualcosa di traumatico irrompe nella quotidianità: di tutta la magia della gioventù veneziana quasi che l’eterno fosse / una porta spensierata / sempre aperta”, rievocata in diverse poesie, resta “solo il riflesso di un sogno”, tra ricordi che “si assommano / e si dileguano”.

Non si allude, nel libro, soltanto alla morte della madre, ma anche alla sua malattia, quella che annebbia e cancella la mente, fino al totale oblio: qualcosa che “consuma e supera / la misura del comprendere”. Eppure comincia a ristabilirsi un possibile ponte tra le dimensioni: “Volgere gli occhi all’eterno andare / … / nell’astratto che sovrasta // tornare poi nel concreto / lasciando impronte nella fissità / del terreno che ci sostiene”. Alle scene di memoriali s’intervallano ora testi dai quali traspare un misticismo ragionante, quasi aforistico, per “sviluppare un’intima connessione / con il mondo segreto”, attraverso “un abbraccio incorporeo” e pacificato: “voglio pensare che lassù sia quiete / che l’immortalità non abbia spine”. Diviene nuovamente realistico “immaginare un divenire / che mi consegni uno scopo”, nel quale “la perdita non mi fagociti / e la caduta possa trovare / un piano che l’accolga”, lo sforzo di “percorrere una via in progressione / un passo che mi conduca / verso un sereno orizzonte”. Si può di nuovo mostrare “nuda la mia faccia senza maschera” e, nella “purezza del vuoto / di chi non c’è più”, ecco che “l’essenziale avanza e si rivela”.

Nella magnifica poesia conclusiva il tempo, in una riappropriazione quasi proustiana, finalmente rifluisce leggero, cuce il presente al passato, il pensiero e la memoria si liberano dei loro fardelli, come in una danza che unisce corpo e infinito.

Stefano Valentini

La Nuova Tribuna Letteraria – Anno XXXIV – 154